Avvocato Roma Prati
Luglio 22, 2022Diritto tributario e pace fiscale 2022: le modalita’ di conciliazione nei giudizi pendenti in Cassazione
Settembre 13, 2022Il Consiglio di Stato si è pronunciato, attraverso la sentenza n. 06584/2022, sul ricorso presentato al TAR Lazio (sezione staccata di Latina) dal proprietario di un immobile contro un Comune per un diniego di sanatoria.
Nella sentenza del CdS si legge che le opere per cui è stato espresso il diniego di condono hanno riguardato:
- la mancata realizzazione dei locali interrati nel corpo A dell’edificio;
- l’ampliamento del solaio di calpestio del piano terra con realizzazione di un portico;
- la realizzazione di quattro locali interni, in luogo dei tre previsti e di un soppalco;
- il cambio di destinazione d’uso da agricola a residenziale di alcune parti dell’immobile.
L’appello è stato respinto dal Consiglio che ha confermato la sentenza del TAR impugnata dal proprietario. Vediamo nel dettaglio quali sono le ragioni presentate dal ricorrente, che denunciava l’illegittimità, e le motivazioni del diniego presentate dall’Ente.
Il proprietario dell’immobile, che aveva chiesto il condono, ha lamentato l’illegittimità del diniego per i seguenti motivi:
- eccesso di potere per difetto ed incompletezza dell’istruttoria, insufficienza della motivazione e perplessità dell’azione amministrativa, in quanto l’amministrazione avrebbe erroneamente inteso il concetto di ultimazione delle opere abusive (in senso materiale e non già giuridico), facendo riferimento ad una disciplina non pertinente e non motivando sulle reali ragioni per cui il condono era stato rifiutato;
- violazione dell’art. 32 del d .l. n. 269/2003 (convertito con l. n. 326/2003) e dell’art. 2 della L.R. n. 12 del 2004 ed eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione, in ragione della irrilevanza dei vincoli gravanti sulla zona, non imponendo l’inedificabilità assoluta.
Il diniego di condono è stato emesso dall’Ente in quanto le opere abusive erano state ultimate dopo la scadenza (31 marzo 2003) prevista dalla l. n. 326/2003, tenuto conto che la documentazione agli atti evidenziava che, in epoca successiva a detta scadenza, tali opere non erano ancora state realizzate.
Il Comune, in adempimento della richiesta del TAR , con una nota ha poi aggiunto una seconda motivazione all’originaria, ovvero che il diniego di condono era giustificato dal fatto che le opere in questione non potevano essere oggetto di sanatoria (art. 3, lett. b), L. R. n. 12/2004), in quanto realizzate in un’area gravata da vincoli ambientali e paesaggistici (Parco nazionale del Circeo; vincolo ambientale ex legge n. 3267/1923 e 1126/1926; ZPS IT 6040015), in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il TAR, con sentenza n. 119 del 2016, dichiarava improcedibile il ricorso originario, respingendo i motivi aggiunti. Il Collegio rilevava che “dall’avvenuto superamento del diniego con esso impugnato ad opera della nuova nota comunale, la quale – ben lungi dall’integrare solo una “relazione sui fatti di causa” – costituisce in realtà un vero e proprio nuovo diniego di condono, emanato dal competente Ufficio comunale e fondato su una nuova motivazione, distinta rispetto a quella del provvedimento originario”. Per il CdS, il TAR ha correttamente dichiarato l’inammissibilità, per carenza di interesse, del ricorso originario, ritenendo la nuova nota del Comune costituisse un nuovo diniego di condono, distinto da quello originario, emanato dal competente Ufficio comunale e fondato su una nuova motivazione. Il Consiglio condivide l’interpretazione del TAR tenuto conto che dai due provvedimenti impugnati si evince chiaramente che la nota sopravvenuta reca una differente motivazione del diniego. Il precedente diniego, invece, ha illustrato una differente ragione di rigetto, atteso che, pur avendo elencato i vincoli gravanti sull’area, ha sostanzialmente addotto quale ostacolo alla sanatoria l’ultimazione delle opere in epoca successiva al termine ultimo (31 marzo 2003).
Nella sentenza si legge che il rigetto della domanda di sanatoria di un abuso edilizio scaturisce dalla sussistenza di un vincolo anteriore all’abuso, dall’assenza o difformità di un titolo abilitativo prescritto e dal contrasto con le norme urbanistiche e con prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Condono degli abusi edilizi: il Consiglio di Stato elenca i motivi di possibile assenso
Si specifica che , ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico come quelli riferiti al caso in questione, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
- si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo;
- seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle
prescrizioni urbanistiche; - siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo,
manutenzione straordinaria); - vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo (v. Cons. Stato,
Sez. VI, 2 agosto 2016, n. 3487).
In ogni caso non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura assoluta o relativa, o comunque di inedificabilità, anche relativa (Cons. Stato, Sez. VI, 2 maggio 2016, n. 1664; Cons. Stato, Sez. VI, 17 marzo 2016, n. 1898).
Nel caso in oggetto, a parte i dubbi sulla riconducibilità delle opere ad epoca anteriore al 31 marzo 2003, i manufatti sono in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, né l’appellante ha ben argomentato in ordine alla conformità di quanto realizzato all’assetto urbanistico – edilizio vigente all’epoca dei lavori.
Inoltre, per il CdS in questa situazione l’area oggetto di intervento è classificata dal P.R.G. vigente come zona verde rurale, sottoposta alla disciplina dell’art. 17 delle N.T.A., disposizione che ammette esclusivamente la costruzione di edifici necessari e pertinenti alla conduzione del fondo rustico, tra cui case poderali e rurali, e consente la realizzazione di residenze plurifamiliari soltanto se rispondenti al fabbisogno del titolare dell’impresa agricola e di suoi diretti discendenti.
In definitiva nella sentenza si legge che le opere realizzate non sono conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.