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Ottobre 6, 2016Contratti di convivenza, novità più rilevanti
L’inedita figura dei contratti di convivenza è una delle novità più rilevanti della legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto, la legge 20 maggio 2016 n.76 nota come “legge Cirinnà”, entrata in vigore il 5 giugno.
In base a tale legge, la “convivenza di fatto” riguarda sia le coppie eterosessuali che coppie omosessuali.
Sono considerati conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale e coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Ovviamente, avranno meno diritti e tutele rispetto a quelle previste per le “unioni civili”.
I conviventi di fatto avranno alcune prerogative normalmente spettanti ai coniugi. Tra gli altri, i diritti di visita previsti dall’ordinamento penitenziario, il diritto di visita e di accesso ai dati personali in ambito sanitario, questione che fino ad oggi aveva dato il via a grandi polemiche; la facoltà di designare il partner come rappresentante per l’assunzione di decisioni in materia di salute e per le scelte sulla donazione di organi; di diritti inerenti la casa di abitazione; le facoltà riconosciute in materia di interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno; il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito.
I contratti di convivenza sono stati pensati per permettere ai “conviventi di fatto” che abbiano registrato il loro stato di stabile convivenza etero o omosessuale nei registri anagrafici, di «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune» (articolo 1, comma 50). Significa che i conviventi di fatto possono affidare a un contratto, appositamente stipulato, la regolamentazione degli aspetti economici del loro menage; si tratta, beninteso, di una opportunità e non di un dovere, in quanto i conviventi hanno la facoltà di svolgere il loro rapporto anche in assenza di un contratto di convivenza.
Questi contratti si prestano ad ospitare un amplissimo contenuto, perché l’unico limite è che in essi devono essere trattate questioni inerenti l’ambito dei «rapporti patrimoniali» dei conviventi. Quindi, non sono idonei a regolamentare questioni diverse da quelle di rilevanza economica, tipo le tematiche di natura strettamente personale, come la vita sessuale e l’organizzazione familiare.
Che tematiche si possono trattare ?
Nei contratti di convivenza possono dunque essere trattate diverse tematiche, come, ad esempio, (articolo 1, comma 53):
- il luogo nel quale i conviventi convengono di risiedere;
- le modalità che i conviventi convengono circa la reciproca contribuzione da effettuare per far fronte alle necessità della vita in comune, e ciò in relazione al patrimonio e al reddito di ciascuno di essi e alla rispettiva capacità di lavoro professionale o casalingo;
- l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni.
A quest’ultimo riguardo, occorre precisare che, mentre i “componenti di una unione civile” (i quali, come tali, devono essere necessariamente dello stesso sesso), sotto il profilo del regime patrimoniale coniugale sono in tutto e per tutto equiparati ai coniugi di un “ordinario matrimonio”, con la conseguenza che tra gli uniti civili, in mancanza di una diversa opzione (e cioè la scelta del regime di separazione dei beni), si instaura ex lege il regime di comunione legale dei beni, l’esatto contrario accade per i “conviventi di fatto” registrati in anagrafe e per i conviventi non registrati.
Infatti, nel corso della convivenza (sia che si tratti di convivenza registrata che di convivenza non registrata) il regime degli acquisti è regolato dal principio in base al quale l’acquisto appartiene solo al soggetto che lo effettua: per far sì che dell’acquisto compiuto nel corso del rapporto di convivenza da uno dei conviventi benefici anche l’altro componente della coppia, occorre non solo che si tratti di una convivenza registrata in anagrafe, ma pure che si tratti di conviventi che, qualora sia stipulato un contratto di convivenza, abbiano anche scelto di inserirvi la clausola dell’adozione del regime di comunione, e cioè di determinare l’effetto per il quale qualsiasi acquisto da chiunque compiuto durante la convivenza appartenga appunto alla comunione dei conviventi.
Il contratto in forma scritta, pena la nullità
Tornando ai conviventi registrati, per stipulare il contratto di convivenza tipico, di cui alla legge Cirinnà, occorre rispettare una certa “liturgia” , mentre il contratto di convivenza tra conviventi non registrati non ha alcun vincolo di forma né nessun onere pubblicitario. Anzitutto, la legge prescrive (articolo 1, comma 51) che il contratto (nonché gli accordi con i quali lo si modifichi o lo si risolva) devono essere redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Una volta stipulato il contratto di convivenza, ai fini di renderlo opponibile ai terzi (e cioè al fine di pretendere appunto che i terzi debbano considerare comuni tra i conviventi gli acquisti da costoro compiuti durante la convivenza, ove abbiano optato per il regime di comunione) il notaio o l’avvocato che hanno autenticato l’atto devono provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi, al fine della iscrizione del contratto stesso nei registri dell’anagrafe nei quali è registrata la convivenza.
In sostanza, questo sistema pubblicitario è preordinato a permettere a chiunque di verificare se tra due determinati soggetti esista una situazione di convivenza registrata e come questa convivenza sia stata eventualmente regolamentata sotto il profilo patrimoniale. Il contratto di convivenza si risolve in caso di morte; in caso di recesso di una o entrambe le parti; in caso di matrimonio o unione civile tra i due conviventi o tra uno di essi ed un terzo soggetto. Alla cessazione della convivenza di fatto potrà conseguire il diritto agli alimenti in capo ad uno dei due partner. Tale diritto deve però essere affermato da un giudice, ove il convivente versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento (ex art. 438 c.c.). Spetta allo stesso giudice determinare la misura degli alimenti (quella prevista dal codice civile) nonché la durata dell’obbligo alimentare in proporzione alla durata della convivenza.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI OPPURE PER REDIGERE UN CONTRATTO DI CONVIVENZA COMPILATE IL MODULO QUA SOTTO.
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