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La Corte di cassazione con la sentenza n. 2000, del 26 gennaio 2017, ha accolto il ricorso di alcuni dirigenti medici che, non avendo potere di organizzare le ferie, avevano diritto all’ indennità sostitutiva.
Il contenzioso
La Corte di appello aveva respinto il ricorso di alcuni medici dirigenti di primo livello, dipendenti di una Fondazione, contro la decisione del Tribunale che aveva respinto la loro domanda di monetizzazione di ferie non godute. Avverso la sentenza sfavorevole i medici sono ricorsi in Cassazione.
Il primo motivo dei ricorsi dei medici dirigenti denuncia vizio di motivazione, violazione dell’articolo 2697 del codice civile e del Dlgs 165/2001 sul pubblico impiego, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che i ricorrenti avessero goduto delle quattro settimane di ferie maturate anno per anno, dando per certo che il monte ferie azzerato dall’istituto si riferisse a ferie ulteriori rispetto al minimo dovuto: nel ricorso in Cassazione si ritiene, invece, che le stesse tabelle prodotte dalla Fondazione confermano un godimento del tutto parziale delle ferie annuali maturate, in molti casi ben al di sotto della soglia delle quattro settimane annue; né, affermano i dirigenti medici ricorrenti, è necessaria una contestazione dei prospetti, atteso che nelle stesse buste paga espressamente viene riconosciuto un debito di ferie.
Di conseguenza erroneamente la sentenza dei giudici di secondo grado ha ritenuto che i ricorrenti abbiano agito per ferie eccedenti le prime quattro settimane. I medici ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 2109, comma 2 e 2087 del codice civile nonché dell’articolo 10 del Dlgs 66/2003, dove la sentenza della Corte territoriale afferma che il diritto alle ferie non sarebbe irrinunciabile e che sarebbe onere del lavoratore attivarsi per fruirne, senza che sia compito del datore di lavoro organizzare la propria attività in modo da far godere delle ferie ai propri dipendenti.
Altro importante elemento contestato nel ricorso è rappresentato dal fatto che i medici dirigenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 21 del contratto collettivo dirigenti medici del 5.12.96 e successive modificazioni e dell’articolo 63 del Dlgs 165/2001 sul pubblico impiego, per avere la sentenza affermato che, in difetto di richiesta del lavoratore, le ferie non consumate si sarebbero estinte e che la loro mancata fruizione sarebbe dipesa dai ricorrenti, non avendo essi provato di aver programmato le proprie ferie e di non averne, poi, potuto godere per diniego da parte dell’istituto. Non corrisponde, inoltre, al vero, la parte della sentenza dei giudici di secondo grado che afferma che sarebbe spettato ai ricorrenti fornire la prova della sussistenza di ragioni aziendali tali da impedire il godimento delle ferie.
L’analisi della Cassazione
I giudici di legittimità ritengono che la sentenza impugnata si è discostata dall’insegnamento giurisprudenziale della Cassazione secondo la quale l’articolo 21, comma 13, del contratto collettivo 5 dicembre 1996, area dirigenza medica e veterinaria (che dispone il pagamento delle ferie nel solo caso in cui, all’atto della cessazione del rapporto, risultino non fruite per esigenze di servizio o per cause indipendenti dalla volontà del dirigente) va interpretato in modo conforme al principio di irrinunciabilità delle ferie, di cui all’articolo 36 della Costituzione; la conseguenza, per i giudici di legittimità, è che si applica solo nei confronti dei dirigenti titolari del potere di attribuirsi il periodo di ferie senza ingerenze da parte del datore di lavoro e non anche nei confronti dei dirigenti privi di tale potere come nel caso in esame.
I medici ricorrenti erano inquadrati come dirigenti di primo livello, dunque in posizione sottordinata a quella dei dirigenti di secondo livello e alla direzione sanitaria responsabile della conduzione della struttura ospedaliera. Pertanto, non avevano il potere di programmarsi le ferie e di autoattribuirsene il godimento.
Ne deriva che ai ricorrenti si applica il principio generale secondo cui il lavoratore che agisca in giudizio per chiedere la corresponsione dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute ha soltanto l’onere di provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni a esse destinati, atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, mentre incombe al datore di lavoro l’onere di fornire la prova del relativo pagamento. Non si applica, invece, il principio secondo cui il dirigente che sia titolare del potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, ove non eserciti detto potere e non fruisca, quindi, del periodo di riposo, non ha il diritto all’indennità sostitutiva, a meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive, ostative alla suddetta fruizione.
I giudici di legittimità evidenziano che il comma 13 dell’articolo 21 del contratto collettivo afferma che: «Fermo restando il disposto del comma 8, all’atto della cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di servizio o per cause indipendenti dalla volontà del dirigente, l’azienda o ente di appartenenza procede al pagamento sostitutivo delle stesse. Analogamente si procede nel caso che l’azienda o ente receda dal rapporto ai sensi dell’art 36».
La Cassazione, quindi, osserva che il testo letterale della clausola contrattuale è chiaro nell’attribuire l’indennità sostitutiva delle ferie per il solo fatto del loro mancato godimento senza che sia necessario che il dipendente alleghi e provi di aver sofferto un particolare pregiudizio.